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Le mete irraggiungibili ci rendono fragili
Le mete irraggiungibili ci rendono fragili
di Francesco Alberoni
 
È incredibile il numero di persone che dicono di soffrire di depressione. Tutti noi abbiano visto grandi attori, grandi scrittori, grandi registi, che, quando smettono di lavorare anche per un breve periodo di tempo, perdono la fiducia in sé stessi, si sentono inutili, vuoti, e hanno bisogno di qualche sostegno per andare avanti.
Perché siamo diventati così fragili? Perché la società ci addita delle mete sempre più alte e addirittura immaginarie. Mentre, in parallelo, non ci insegna a sviluppare le doti necessarie per affrontare le difficoltà, la frustrazione, l'insuccesso, la solitudine, la sfortuna. Un tempo non era così. Un tempo la gente si poneva come meta di trovare un lavoro, di diventare padre, madre, artigiano, fabbro, oppure medico, ingegnere, avvocato ed era contenta del successo che otteneva nel suo ambiente.
Ma oggi siamo tutti proiettati in una società dilatata e ci confrontiamo con tutti. La televisione, i rotocalchi, la pubblicità ci propongono come modelli i personaggi del mondo dello spettacolo giovani, belli, ricchi, sani, felici, allegri, che passano la vita fra un divertimento e l'altro. Non è vero, è una finzione, una messinscena, ma la gente crede veramente che la loro vita coincida con lo svago, il divertimento, la festa. La maggior parte della gente comune, invitata a dire che cosa vorrebbe fare, ti parla di vestiti, di viaggi, di vacanze. Quasi tutte le ragazze sognano di diventare presentatrici o veline, i ragazzi di entrare in qualche reality show. La più riservata casalinga desidera comparire in qualche spettacolo televisivo. E chi non può andare in televisione cerca di apparire in qualche altro modo, facendosi notare almeno per il vestito. E i ricchi, i potenti, coloro che hanno successo si confrontano con tutti quelli che hanno più di loro e, avendo più possibilità, si fanno afferrare da una sfrenatezza impietosa, ricorrono alla droga, ed entrano così in un nuovo ciclo maniaco depressivo.
Forse siamo arrivati alla radice del problema. La depressione è una malattia dell'essere, sostituito dall'apparire. Un tempo, quando eri padre, madre, contadino, fabbro, falegname, medico poggiavi su qualcosa di solido, appartenevi all'essere. E, per di più, esistevi davanti a Dio. L'apparire è trovarti totalmente in balia degli altri, del caso. Quando sei solo non esisti più. Ora Dio sono diventati gli altri, una infinità di dèi capricciosi. E, se si dimenticano di te, svanisci.
 
17 ottobre 2005 ((www.corriere.it))
 
 
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